Così sessant'anni fa i giapponesi sperimentavano sui prigionieri in Manciuria armi letali
Orrori e misteri dell'Unità 731 la "fabbrica" dei batteri killer
di MARCO LUPIS
fonte: http://www.repubblica.it/online/cronaca/virustre/fabbrica/fabbrica.html
HONG KONG - Ad Harbin i bambini con gli occhi a mandorla e la faccia da piccoli russi attraversano il fiume Sungari in bicicletta, cercando di tenersi in equilibrio, scivolando con le gomme sulle acque ghiacciate. Da lontano questa cittadina della Manciuria, il Grande Nord della Cina, ha persino il sapore della terra di confine. La cupola verde a cipolla della cattedrale conferma quel soprannome di "piccola Russia" che i locali le danno da sempre. Oggi Harbin è una città animata, sporca, logora e inquinata. Quando nel 1949 i comunisti cinesi presero la Manciuria, ereditarono dai giapponesi sconfitti e in fuga una struttura industriale e una rete di comunicazioni che non avevano eguali in nesuna parte del Paese. Ma anche uno dei segreti più agghiaccianti della storia degli orrori del ventesimo secolo: l'Unità 731. Un luogo in cui si consumarono terrificanti atrocità nel nome di una folle progetto voluto dal Giappone Imperiale: trovare quell'"arma finale" che garantisse la supremazia definitiva del Giappone sul mondo.
Fantasmi terribili di un passato lontano ormai quasi sessant'annni, ma che improvvisamente sembrano rivivere per gettare le loro ombre sulla tragedia che, con il contagio della polmonite atipica, sta attaversando la Cina e il mondo intero. Ad Harbin il generale Ishii Shiro detto "il dott Menghele giapponese" a capo della Unità 731 condusse, durante e dopo la seconda guerra mondiale, un folle programma di ricerche batteriologiche. Con il benestare dei vertici militari dell'epoca e, probabilmente, dello stesso imperatore Hiroito, i prigionieri cinesi venivano utilizzati come cavie umane e sottoposti a ogni sorta di terrificanti esperimenti. Il piano rimase segreto anche dopo la fine del conflitto, grazie alla promessa di immunità fatta dall'esercito degli Stati Uniti ai dottori accusati di crimini di guerra, in cambio dei dati emersi dalle loro ricerche.
Il progetto in Giappone era stato avviato negli anni Trenta per iniziativa di alcuni funzionari, rimasti colpiti dalla messa al bando delle armi batteriologiche contenuta nel protocollo di Ginevra del 1925. Il Giappone nella loro idea doveva assolutamente disporre di queste armi. L'esercito giapponese, che all'epoca occupava una vasta area in Cina, fece evacuare gli abitanti di otto villaggi nella zona di Harbin, per fare posto al quartier generale della famigerata Unità 731". Dal punto di vista dei giapponesi la Cina costituiva un luogo ideale per le ricerche, poiché offriva materiale umano "di basso valore" su cui sperimentare i batteri: i marutas, ovvero pezzi di legno, come i giapponesi li chiamavano con disprezzo, erano per lo più sospetti comunisti e criminali comuni. Tutti cinesi. L'efficacia delle armi batteriologiche preparate in laboratorio veniva regolarmente sperimentata sul campo: il lancio di pulci infette sul territorio orientale di Ningbo e su quello centro-settentrionale di Changde provocò lo scoppio di due epidemie di peste. Mentre la contaminazione di pozzi e bacini con colture di tifo, colera, tubercolosi, antrace, e anche virus di una forma di polmonite letale, si rivelò efficace. Nel 1942 l'équipe di esperti riuscì a diffondere queste malattie nella provincia cinese di Zhejiang, ma il contagio si estese anche alle truppe giapponesi, provocando la morte di 1.700 soldati.
Il professor Sheldon H. Harris, docente di Storia presso la California State University a Northridge, nel suo libro "Factories of death (Fabbriche di morte)", pubblicato nel 1997 e considerato un testo di riferimento per la scrupolosa e documentata ricostruzione storica della vicenda, ritiene che le vittime degli esperimenti con armi batteriologiche fatti in Cina siano stati più di 200 mila. "Persino quando ormai il conflitto volgeva al termine e si profilava chiara l'imminente caduta del Giappone, nella zona di Harbin furono liberati animali appestati e infettati con virus e batteri letali, mutati in laboratorio in modo tale da renderli trasmissibili all'uomo. Nelle epidemie che seguirono in Cina, dal 1946 al 1948, morirono almeno 30 mila persone", scrive il professor Harris. Malgrado siano ormai passati quasi 60 anni, nessuno tra i ricercatori che si sono occupati della vicenda, né tantomeno gli organismi internazionali che si occupano di disarmo globale, come l'Onu, sono mai riusciti a sapere con esattezza dal governo cinese che fine abbiano fatto quei materiali batteriologici. Questo black-out delle informazioni è essenzialmente dovuto alla totale chiusura internazionale della Cina di Mao. Ma anche in seguito, le autorità cinesi non sono state prodighe di informazioni. I documenti dell'esercito nipponico dell'epoca, pubblicati nel libro dello storico americano, rivelano che, "a pieno regime" l'Unita 731 produceva, tra l'altro, 1000 chili di batteri della peste al giorno.
Ma che fine ha fatto questa enorme quantità di pericolossimi materiali batteriologici e chimici prodotti ad Harbin? Un rapporto riservato della Conferenza di Ginevra sul Disarmo (protocollo CD/1127/CD/CW/WP.384), datato 18 febbraio 1992, fornisce una parziale risposta. Soltanto 11 anni fa sul territorio cinese esistevano ancora: "tre milioni di armi chimiche abbandonate da potenze straniere (leggi Giappone) scoperte ma non distrutte"; 100 tonnellate di agenti batteriologici abbandonate da potenze straniere, scoperte ma non distrutti". Nello Hubei le vittime sono state almeno 2000. Nel 1986 e 1987 poi (malgrado Usa e Cina fossero nemici) l'American department of Defense e la Hubei Provincial Medical University condussero una serie di test su circa 200 volontari locali, affetti da febbre emorragica con sindrome renale. Il risultato fu la creazione di un antivirale da utilizzarsi inizialmente solo per uso militare, per disporre di una cura per le contaminazioni batteriologiche da virus. Il Ribavirin, questo il nome del farmaco, è lo stesso utilizzato estensivamente in questi giorni dai medici cinesi per cercare di curare i malati di Sars.
Il professor Masuda Tsuneshi, direttore del Centro Studi sulla Guerra del Pacifico dell'Università di Taipei, ha raccolto e sviluppato l'insegnamento di Harris. "Da quando sono cominciate ad arrivare le prime notizie dell'epidemia in Cina - racconta a "Repubblica"- ho fatto riflessioni angoscianti. Gli esperimenti di Harbin condotti sui virus della polmonite, la diffusione di animali infettati, la coincidenza sull'uso del Ribavirin...". Coincidenze sufficienti ad ipotizzare un legame tra gli antichi orrori dell'Unita' 731 e l'attuale emergenza? Oppure addirittura l'ipotesi che il virus-killer fosse stato già sperimentato o prodotto nei laboratori di Harbin, e poi "richiamato in vita" da qualche contenitore abbandonato in qualche parte della Cina? "Credo che questo sia poco probabile - riflette il professore - anche se non impossibile. Difficile immaginare che un agente patogeno come un virus sia potuto rimanere in vita molti decenni. Dai documenti dell'epoca, però, sappiamo che il generale Shiro e i suoi colleghi lavoravano proprio per mettere a punto 'veicoli' che potessero diffondere virus e batteri nell'ambiente mantenendo la loro sinistra efficacia più a lungo possibile, come le spore, ad esempio. Un po' meno azzardato forse pensare che il regime maoista prima, e i militari cinesi dopo, si siano impossessati delle armi letali di Harbin e le abbiano conservate scrupolosamente per decenni in qualche magazzino o laboratorio segreto, per poter disporre di armi di distruzione di massa. Finora non è emersa alcuna prova certa a favore di questa teoria - obbietta il professor Masuda - ma neppure nessuna prova contro. D'altronde - conclude - Mao diceva: 'la bomba atomica non mi spaventa. Di cinesi ne ho talmente tanti'. Perché avrebbe dovuto avere paura della guerra batteriologica?"
(14 aprile 2003)
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da Repubblica.it